Il Nuovo Lupo
Bruno Sprea, musicista anarchico

Qualche volontà magica deve aver pensato ad una sorta di staffetta storica. Una staffetta di musicisti e poeti di cui cominciamo ad aver traccia a partire da Marcelliano Marcello, passando per Ceroni, Zanetti e via via tutti gli altri fino ai nostri giorni. Certamente c’era qualcun altro anche prima di Marcello, solo che a noi non è arrivata notizia, ma di sicuro c’era perché il polline della musica e della poesia viaggia nel tempo senza ostacoli e feconda qualcuno in ogni epoca.

Quando arrivò su Bruno Sprea attaccò subito regalando a Lupatoto un grande personaggio che non viene ricordato per quello che ha scritto, ma per quello che ha fatto. Il suo capolavoro, infatti, consiste nell’aver insegnato la musica a centinaia di allievi di tre generazioni. La sua, comunque, non era solo scuola di musica, ma scuola di vita. Con lui si poteva parlare di tutto, compresi gli argomenti più impegnativi. Spesso si faceva notte fonda a discutere di filosofia, di religione o a giocare interminabili partite a scacchi.

Era nato almeno cinquant’anni in anticipo e questo significò durissimi scontri con le autorità del tempo, quelle politiche ma soprattutto quelle religiose. Ci voleva davvero del coraggio a gestire, negli anni Venti, un cinema con varietà. Lo scandalo era assicurato ma il cinema era sempre pieno. Una processione religiosa, con il parroco in testa, cambiò itinerario per non passare davanti al cinema con tutti quei cartelloni scandalosi che Sprea si era rifiutato di togliere per il passaggio dei fedeli. Sono di quel periodo le prime orchestrine organizzati dal maestro. Erano composte da chitarre e mandolini e servivano ad accompagnare dal vivo i film muti o ad animare feste popolari inventate ed organizzate dallo stesso maestro. Come la Festa delle Viole, all’Adige, con l’orchestra che arrivava al Porto su un carro pieno di fiori. Un vero inno alla vita. E un vero tormento per il parroco che vedeva i fedeli disobbedire in massa alle sue raccomandazioni di stare lontani dal ballo, a quei tempi considerato la più pericolosa occasione di peccato.       

L’uomo era un perfetto anarchico. Non tollerava nessuna autorità. E’ un miracolo che abbia passato indenne il ventennio. A salvarlo è stata la musica che piaceva anche ai ricconi lupatotini che lo invitavano spesso a suonare nelle loro feste e quindi in qualche modo lo proteggevano . In paese c’è ancora qualcuno che le ricorda e ne parla come di qualcosa che si vedeva soltanto al cinema.

Tuttavia la guerra lasciò il segno anche su di lui, colpito dal dolore più grande. Suo figlio Brunetto partì per la Russia insieme a tanti altri giovani lupatotini, ma fu tra quelli che non fecero più ritorno.

Fu uno dei tanti dati per dispersi e il nostro maestro sperò a lungo in un miracolo. Ogni tanto i giornali davano notizia di qualcuno che tornava, anche dopo anni, ma Brunetto non tornò più.

Dovettero passare molti anni prima di vedere il maestro rassegnato.   

Grande era la sua diffidenza verso il potere, eppure c’era sempre qualcuno che  dava spazio ai suoi gruppi musicali. Eccolo allora a dirigere la banda del paese. Alla sua maniera, naturalmente, cioè con fantasia e originalità. Si ricorda ancora un concerto davanti alla Madonnina con la gente a chiedersi da dove venisse un dolcissimo canto d’usignolo che interveniva ogni tanto, mentre i fiati tacevano. L’usignolo era lui che suonava un ottavino dal campanile. Infatti quello era l’unico strumento che suonava. Lo avevano chiamato a suonare anche in Arena, nonostante fosse un autodidatta e non avesse mai messo piede in un conservatorio.

Un parroco finalmente lungimirante riuscì a convincerlo a formare un coro in chiesa. La cosa fece molto scalpore perché tutti ricordavano le vecchie battaglie tra il maestro e i preti. Il risultato fu una chiesa stracolma di gente, un successo clamoroso ricordato con emozione per molto, molto tempo. 

Dopo la guerra, nel 1950, inventò un complesso di fisarmoniche formato da ragazzi dai dieci ai sedici anni, un gruppo che gli diede molte soddisfazioni e che sopravvive ancor oggi quasi al completo, anche se quei ragazzini sono ormai più volte nonni. Se un maestro ha saputo fare tanto, vuol dire che è stato un grande maestro    

Morì da solo, all’ospedale di Zevio. Non voleva farsi vedere malato dai suoi allievi.    

                                                                             Igino Maggiotto 

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